Diciamolo
brutalmente: l’Italia appare sempre più spesso un Paese di ladri e di
truffatori, o, se si
preferisce un’espressione più forbita, dell’illegalità diffusa. Specie
se si tratta della sfera pubblica, tutto appare in vendita e tutti
comprabili, ogni appalto appare manipolato, ogni spesa nascondere una
tangente, ogni privilegio è pronto a trasformarsi in un abuso mentre
l’assenteismo truffaldino è la regola.
Ma perché le cose stanno così? Perché da noi il disciplinamento sociale
si mostra così debole? Perché da noi non funzionano quei meccanismi che
servono a ricordare nelle più svariate occasioni che «non si può fare
come si vuole», che ci sono delle regole necessarie alla convivenza per
ogni violazione delle quali ci sono delle sanzioni? E perché queste non
sembrano preoccupare nessuno? Un principio di risposta va cercato nella
crisi profondissima che in Italia ha colpito da decenni (insisto: da
decenni) la scuola, la quale - stante il forte indebolimento
dell’istituto familiare, dell’influenza religiosa e la fine del servizio
di leva - è divenuta da molto tempo l’agenzia primaria se non unica del
disciplinamento sociale degli italiani: con esiti che sono sotto gli
occhi di tutti.
La scuola adempie a questa funzione di disciplinamento essenzialmente in
due modi. Innanzi tutto, per l’appunto, con la disciplina: cioè
inserendo il giovane in un ordine dato e non contrattabile fatto di
orari, ruoli, obblighi di un certo comportamento, ed esigendone il
rispetto. In secondo luogo impartendo un insieme di nozioni, le quali
rappresentano però assai più che sparse conoscenze disciplinari. Nel
loro insieme infatti esse costituiscono un patrimonio che affonda le sue
radici nel passato e costituisce un’identità culturale messa a
disposizione dello studente, implicando dunque un’idea della continuità
nonché un’immagine della trasmissione da una generazione all’altra.
Tutti elementi che, congiunti, implicano anche un’idea forte del legame
sociale.
Ma importa a qualcuno di come la scuola riesca ad adempiere il ruolo ora
descritto? Non direi: oggi la scuola sembra interessare l’opinione
pubblica, infatti, solo per le agitazioni di tipo sindacale degli
insegnanti o per le cosiddette «lotte degli studenti». Di ciò che invece
accade ogni giorno nelle sue aule, dell’atmosfera che in esse si
respira, di ciò che costituisce la vita concreta degli istituti,
dell’effetto delle regole adottate, dei rapporti degli insegnanti con le
famiglie e con gli allievi, di tutto ciò, così come di quanto essa
riesca davvero a insegnare, non sembra che importi quasi nulla a
nessuno. Tanto meno, poi, sembra importare quale sia il reale effetto
che la scuola stessa ha sulla costruzione sociale degli italiani. Anche
il ministro Giannini ho il sospetto che di tutto questo si occupi e
sappia pochissimo: in pratica - come è la regola supinamente accettata
da tutti i ministri - temo che essa conosca solo ciò che la sua
burocrazia vuole farle conoscere.
Dubito ad esempio che nelle stanze di viale Trastevere sia mai giunta
notizia che in moltissime realtà scolastiche italiane ormai si assiste
ad una vera e propria abolizione di fatto della disciplina. Dubito che
si sappia che ormai non sono affatto rari i casi, già nelle scuole
medie, non solo di aperta irrisione e insofferenza da parte degli
studenti verso gli insegnanti, ma addirittura di minacce e insulti nei
loro confronti: e quasi sempre senza che ciò produca sanzioni degne di
questo nome (il caso della sospensione inflitta l’altro ieri in una
scuola del Torinese a una quindicina di allievi, è la classica eccezione
che conferma la regola). Da tempo infatti nella scuola italiana -
complici l’aria dei tempi, la voglia di non avere fastidi, l’arroganza
di molti genitori inclini a proteggere sempre il «cocco di casa» anche
se è un teppista in erba - da tempo, dicevo, domina un permissivismo
distruttivo e frustrante.
Un permissivismo che prende, tra le molte altre, la forma della
promozione d’ufficio. Certo, non è scritta da nessuna parte (almeno
suppongo), ma di fatto vige la regola che nella scuola dell’obbligo,
cioè fino alla terza media, è vietato bocciare. L’effetto di tutto ciò è
che in generale il meccanismo didattico risulta privo di quello che da
che mondo e mondo è il solo, vero (e infatti altri finora non ne sono
stati inventati), strumento di sanzione. Ma ancora più importante, però,
è che dominata da un tale meccanismo perverso, la scuola finisce
inesorabilmente per perdere ogni reale capacità di insegnare qualcosa.
Mi chiedo se il ministro Giannini sia consapevole di ciò che un gran
numero di insegnanti potrebbero confermarle: e cioè che oggi termina la
scuola dell’obbligo un grandissimo (insisto: grandissimo) numero di
studenti incapaci di scrivere correttamente in italiano, di fare il
riassunto di un testo appena complesso, di risolvere un pur non
difficile problema di matematica. Me lo chiedo; ma mi pare che in questo
ambito, invece, la politica abbia rinunciato a chiederselo e - salvo
occuparsi di assicurare posti di lavoro ai «precari» - abbia deciso da
tempo di rinunciare ad ogni suo ruolo direttivo, a qualsiasi intervento
effettivamente di merito, preferendo affidarsi a un vuoto didatticismo e
ai ritrovati tecnici della telematica nonché alla famigerata «autonomia
scolastica».
In verità è tutto il Paese che sa poco o nulla di che cosa sia realmente
oggi la sua scuola, né vuole saperlo. Ignora, ad esempio, che grazie ad
un assurdo statuto di autonomia amministrativa attribuita ai singoli
istituti e alla regionalizzazione di quelli che una volta erano i
Provveditorati agli studi, la scuola italiana è oggi per più versi
abbandonata a se stessa. Ignora che le singole scuole sono obbligate ad
andare a caccia di studenti asservendosi sempre di più alle leggi del
mercato e alle mode socio-culturali: ricorrendo a offerte formative
fatte per «piacere» alle famiglie, programmando attività educativamente
anche le più inutili e spesso a pagamento, che in tal modo discriminano
socialmente gli alunni. Ma anche qui: importa a qualcuno questo
snaturamento di fondo? Importa a qualcuno, ad esempio, che per sostenere
il numero delle iscrizioni le suddette scuole siano indotte spesso a
chiudere un occhio sui risultati scolastici insufficienti dei propri
allievi? Importa a qualcuno che una siffatta autonomia stia operando
implacabilmente contro l’unità del Paese, accentuando le disparità tra
quartiere e quartiere, tra regione e regione, tra il Nord e il Sud?
Favorendo ulteriormente le situazioni già favorite, e sfavorendo quelle
già svantaggiate? Da almeno due o tre decenni i giovani italiani
crescono e si socializzano in questo ambiente scolastico. Qui apprendono
che cos’è la cultura, cosa sono le regole, che cosa l’autorità, e che
conto tenerne. In piccolo imparano insomma come funziona il loro Paese:
ci si può meravigliare se poi, quando crescono, si regolano di
conseguenza?
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