La scuola che cambia

 

Negli ultimi anni la scuola e la società sono cambiati radicalmente. La scuola non è più come moltissimi anni fa, quando era molto selettiva e riservata ai ceti più abbienti. Oggi la scuola è molto più aperta e "democratica", però è anche piena di nuove problematiche: bambine e bambine arrivano a scuola già con un bagaglio di problemi esistenziali e relazionali, cosicché il loro comportamento è tale da rendere complesso “il normale svolgimento” delle attività didattiche.
Non stiamo parlando del cosiddetto bullismo, che per altro è in crescita ma di un altro fenomeno.

 I disturbi di oggi sono l’irrequietezza, intesa come turbolenza continua e incapacità di autocontrollo, e l’inquietudine come ansia e frutto di un’organizzazione sociale e familiare tormentata, dove a volte la presenza del bambino non è prevista.

Super-impegnati, sballottati tra nonni, baby sitter, televisione, videogiochi, palestre e corsi di vario genere, i bambini avvertono di essere di troppo, di essere un problema e quindi è normale la loro irrequietezza e inquietudine. Queste emozioni negative sono la manifestazione di un disagio profondo che può essere curata solo con l’affetto, la comprensione l’aiuto continuo dell’adulto e l’inserimento in un ambiente collaborativo. L’affetto e la comprensione che la scuola offre sono importanti, ma non è detto che i risultati siano sempre positivi poiché è solo un primo passo.
Il secondo, quello decisivo dal punto di vista scolastico è la conquista della fiducia in sé e dell’autonomia, che a scuola significa imparare ad imparare, ad acquisire un metodo di studio. Tutti gli insegnanti di scuola primaria lo sanno e lavorano con professionalità e passione facendo veri miracoli per aiutare questi bambini inquieti e irrequieti.

A volte però ci si trova di fronte a delusioni amare e scottanti. Non ci sono molte scelte: c’è chi non si dà per vinto e continua a lottare e c’è chi preso dallo sconforto sceglie di non esporsi più di tanto, di fare lo stretto necessario, senza metterci più passione e impegno. Questo è un problema sociale, riguarda tutti, sarebbe ora di discuterne anche più approfonditamente: tutti dobbiamo rifletterci su se si vuole realmente superare questa problematica: è troppo comodo per tutti far ricadere ogni responsabilità sulla scuola e gli insegnanti.


Per tutti gli educatori e i genitori attenti consiglio la lettura di un libro di Umberto Galimberti: “L’ospite inquietante”


Vi allego degli stralci tratti dal libro.


Cap. 6. La formazione dei professori.
Questi sono i problemi della scuola, problemi che si possono risolvere solo con la formazione, e non solo la preparazione, di professori che abbiano come tensione della loro vita la cura dei giovani. E come non si può fare i corazzieri se si è alti un metro e cinquanta, cominciamo a chiederci perché si può insegnare per il solo fatto di possedere una laurea, senza alcuna richiesta in ordine alla competenza psicologica, alla capacità di comunicazione, al carisma. Sì, proprio il carisma. Tutti abbiamo conosciuto almeno un professore che è stato decisivo nelle nostre scelte di vita. Perché questa possibilità è sempre più ridotta per i giovani di oggi, quando la psicologia ci insegna che i processi di identificazione con gli adulti, le cariche emozionali che su di loro vengono convogliate sono le prime condizioni per la costruzione di un concetto di sé così necessario per non brancolare nell'oscillazione dell'indeterminatezza?
La mancanza di formazione personale, infatti, se non porta gli adolescenti al suicidio, li porta spesso là dove si spaccia musica, alcol e droga, in quella deriva dell'esistere che è poi quell'assistere allo scorrere della vita in terza persona senza esserne granché coinvolti, in ritmi sempre più estremi ed estranei. Per cui, in certo modo, ci si sente stranieri nella propria vita, in quell'insipido trascorrere di giorni, dove equivalente diventa esserci o non esserci, senza che alcun gradiente faccia apparire la vita preferibile al suo nulla, in quell'atmosfera opaca e spessa che si frappone tra sé e le proprie cose, che se ne vanno lontane da una vita che avverte se stessa sempre più anonima e altra.

A queste forme di disagio si è soliti rispondere con quell'elenco di riforme dove ciò che si prospetta sono autonomie gestionali, rivalutazione della figura del preside, incentivi materiali, nuovi programmi ministeriali messi a punto in funzione di nuovi profili professionali, accorpamento di indirizzi di studio, commissioni di esperti, informatizzazione di questo e di quello, magnifici libri di testo, corsi integrativi, corsi d'aggiornamento. L'unico fattore trascurato è il frequente disinteresse emotivo e intellettuale dell'insegnante, con trasmissione diretta allo studente, che tra i banchi di scuola finisce per trovare solo quanto di più lontano e astratto c'è in ordine alla sua vita, in quella calda stagione dove il sapere non riesce, per difetto di trasmissione, a divenire nutrimento della passione e suo percorso futuro.


Cap.7. Il bullismo degli studenti.
E così per tutta l'adolescenza e la prima giovinezza, quando massima è la forza biologica, emotiva e intellettuale, i nostri ragazzi vivono parcheggiati in quella terra di nessuno dove la famiglia non svolge più alcuna funzione, la scuola non desta alcun interesse, la società alcun richiamo, dove il tempo è vuoto, l'identità non trova alcun riscontro, il senso di sé si smarrisce, l'autostima deperisce. Solo con gli amici della banda oggi molti dei nostri ragazzi hanno l'impressione di poter dire davvero "noi", e di riconfermarlo in quelle pratiche di bullismo che sempre più caratterizzano i loro comportamenti a scuola. Lo sfondo è quello della violenza sui più deboli e la pratica della sessualità precoce ed esibita sui telefonini e su internet dove, compiaciuti, fanno circolare le immagini delle loro imprese.


Cap.8. Che fare?
Che fare non lo so, che dire ci provo. Penso che la generazione dei nostri figli abbia, rispetto a quella dei loro genitori, un'emotività molto più incontrollata e uno spazio di riflessione molto più modesto. Il loro fondo emotivo è stato sollecitato fin dalla più tenera età da un volume di sensazioni e impressioni eccessivo rispetto alla loro capacità di contenimento. Sin dai primi anni di vita hanno fatto troppa esperienza (televisiva e non) rispetto alla loro capacità di elaborarla. Di loro abbiamo detto: "Come sono intelligenti, noi alla loro età eravamo più stupidi". E non l'abbiamo detto solo a noi, l'abbiamo detto anche a loro. E loro ci hanno creduto, avviandosi, con la nostra benedizione ed il nostro compiacimento, su quella strada ingannevole dove si confonde l'intelligenza con l'impressionabilità, a cui segue una risposta immediata.
In questo gioco di inganni abbiamo confuso la loro risposta immediata con la prontezza dei riflessi e la velocità di ideazione, mentre era semplicemente un cortocircuito.
Ora questi nostri figli si trovano ad avere un'emotività carica e sovraeccitata che li sposta dove vuole, a loro stessa insaputa, senza che un briciolo di riflessione, a cui non sono stati educati, sia in grado di raffreddare l'emozione e non confondere il desiderio con la pratica anche violenta per soddisfarlo.
Autodiscipline, non divieti immotivati e punizioni casuali. E perché le autodiscipline si formino occorre aver
passato tanto tempo con i figli, perché la teoria secondo la quale è decisiva la qualità del tempo che si passa con i figli e non la quantità è una patetica storia che genitori, in tutt'altro affaccendati, si sono raccontati a loro giustificazione, lasciando ai figli una gran quantità di tempo da passare in solitudine, con un carico emozionale eccessivo e nessuno strumento di contenimento.
Ma ormai questo mio parere, se ha una sua plausibilità, può tornar utile a chi mette al mondo dei figli oggi.
Per chi li ha già in quell'età che possiamo definire dell'adolescenza infinita, resta solo da dire a genitori e professori: non interrompete mai la comunicazione, buona o cattiva che sia, qualunque cosa i vostri figli o i vostri studenti facciano. A interromperla ci pensano già loro e, come di frequente ci dicono le cronache quotidiane, anche in maniera distruttiva.
Dispongono ancora i nostri giovani di una psiche capace di elaborare i conflitti e quindi, grazie a questa elaborazione, di trattenersi dal gesto? Esiste nella loro cultura e nelle loro pratiche di vita un'educazione emotiva che consenta loro di mettere in contatto e quindi di conoscere i loro sentimenti, le loro pulsioni, la qualità della loro sessualità e i moti della loro aggressività? Oppure il mondo emotivo vive dentro di loro a loro insaputa, come un ospite sconosciuto a cui non sanno dare neppure un nome? .Qui faccio riferimento a quella cura dell'emotività che prende avvio il giorno della nascita, quando il neonato si attacca al seno materno e, insieme al latte, assapora l'accoglienza, l'indifferenza o il rifiuto. Moti impercettibili che sfuggono all'osservazione esterna, ma decisivi per la formazione nel neonato di quel nucleo caldo o "fiducia di base", come la chiama Michael Balint, che è la prima condizione per essere al mondo, senza essere soverchiati dall'angoscia.
Poi si cresce, e nell'educazione della prima infanzia vedo padri e madri che promuovono un'educazione fisica e un'educazione intellettuale, ma non un'educazione emotiva, che è poi l'educazione dei sentimenti, delle emozioni, degli entusiasmi, delle paure. Tutte queste cose il bambino se le organizza da sé come può e soprattutto con gli strumenti che non ha.
Tra una palestra e un corso di nuoto perché bisogna crescere con un bel corpo, tra una spiegazione ora sbrigativa, ora articolata, ora un po' imbrogliata perché bisogna diventare intelligenti, quanto passa tra genitori e figli di quella comunicazione indiretta per cui si sente nella pancia, prima che nella testa, che del padre e della madre ci si può fidare, perché li si avverte al proprio fianco nei primi movimenti un po' impacciati della vita? Cura del corpo, cura dell'intelligenza, ma quanta cura dell'anima? Qui gli adulti annaspano un po'. E veicolano l'amore attraverso le cose che in abbondanza acquistano per soddisfare
quei desideri infantili che vanno a occupare il vuoto di comunicazione, che già manifesta i suoi primi segni
nella svogliatezza, nell'indolenza, nella pigrizia, nella ribellione e, nei casi più gravi anche se meno eclatanti,
nella rassegnazione depressiva. Quel che si può avvertire in questo periodo caratterizzato da sovrabbondanza di stimoli esterni e carenza di comunicazione sono i primi segnali di quell'indifferenza
emotiva, oggi sempre più diffusa, per effetto della quale non si ha risonanza emozionale di fronte ai fatti a cui si assiste o ai gesti che si compiono.
E tutto ciò perché? Perché manca un'educazione emotiva: dapprima in famiglia, dove i giovanissimi trascorrono il loro tempo in quella tranquilla solitudine con le chiavi di casa in tasca e la televisione come baby-sitter, e poi a scuola quando, sotto gli occhi molto spesso appannati dei loro professori, ascoltano parole inincidenti, che fanno riferimento a una cultura troppo lontana da ciò che la televisione ha loro offerto come base di reazione emozionale. E così la loro sensibilità fragile, introversa e indolente, che la scuola si guarda bene di educare, tracolla in quell'inerzia a cui li aveva allenati l'apprendimento passivo davanti al video e oggi davanti a internet, con frequenti fughe nel sogno o nel mito, nella ricerca neppure troppo spasmodica di un'identità, di cui troppo presto si dubita di poter reperire la fisionomia, per incapacità di rintracciare radici emotive proprie.
Il tutto condito da un acritico consumismo, reso possibile da una società opulenta, dove le cose sono a disposizione prima ancora che sorga quell'emozione desiderante, che quindi non è sollecitata a conquistarle, e perciò le consuma con disinteresse e snobismo in modo individualistico, dove il pieno delle cose sta al posto del vuoto delle relazioni mancate.
Siccome l'educazione delle emozioni ci porta a quell'empatia che è la capacità di leggere le emozioni degli altri, e siccome senza percezione delle esigenze e della disperazione altrui non può esserci preoccupazione per gli altri, la radice dell'altruismo sta nell'empatia, che si raggiunge con quell'educazione emotiva che consente a ciascuno di conseguire quegli atteggiamenti morali dei quali i nostri tempi hanno grande bisogno: l'autocontrollo e la compassione.
Oggi l'educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli studi e le statistiche concordano nel segnalare la tendenza, nell'attuale generazione, ad avere un maggior numero di problemi emotivi rispetto a quelle precedenti. E questo perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più aggressivi e quindi impreparati alla vita, perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l'autoconsapevolezza, l'autocontrollo, l'empatia, senza i quali saranno sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare.