La zappa e le macerie di ricordi lontani

 

Recentemente esplorando il web ho letto l’ anteprima di un racconto scritto da un autore sardo Claudio Piras Moreno, il suo libro si chiama “Macerie” .

Leggendo l’anteprima, mi sono subito resa conto dai primi paragrafi che valeva la pena continuare a leggere. Sono rimasta molto colpita dal racconto per molti motivi; si parla del duro lavoro che anche i nostri nonni e bisnonni hanno svolto con fatica nel nostro territorio pugliese che come tutti sanno è pietroso e calcareo. In terreni pianeggianti e con poche pietre si poteva arare con l’aratro trascinato da un mulo o un asino, ma sulla Murgia è impossibile usare mezzi meccanici di qualsiasi tipo.

Nel nostro territorio c'è una zona murgiana chiamata "Quite", terreni poco coltivabili perché di terra ve ne era poca, ma per sfamarsi bisognava coltivare quel poco che c’era e lo si faceva eliminando le pietre e zappando faticosamente la poca terra che emergeva dopo aver eliminato le pietre.

Il termine "Quita" e la forma dialettale della parola "Quota", poichè quel territorio fu "parcellizzato" tra la fine del 1800 e l'inizio del 1900 a favore dei cittadini meno abbienti. Un'altra parte fu assegnata in favore dei reduci delle guerre coloniali d'Africa.

Per chi vuole approfondire questa tematica:

http://www.murgiapride.com/new/index.php/turismi/ambiente-e-natura/445-le-quite-santeramo-in-colle

 

e sul degrado della Murgia:

 

 Noi non abbiamo molta memoria della zappa, eppure fino a pochi decenni fa si usava ancora, ci sono posti sulle Murge oltre alle “quite” dove i contadini utilizzavano dei veri e propri fazzoletti di terra per coltivare l’orto; per farle crescere bene bisogna prima della semina, far “respirare la terra” cioè zapparla. Periodicamente si zappano ancora per avere terreno soffice e ripulito dalle erbacce che soffocavano piante e radici. Zappare era un lavoro durissimo che veniva svolto anche dalle donne e dai bambini.


Questo brano racconta il duro lavoro di un contadino- zappatore e di suo figlio e della misera vita che si conduceva circa 60 anni fa in Sardegna, nella Puglia, in molte regioni d’ Italia dove la natura del territorio e la vita degli uomini non era facile. Il nome del bambino Bainzu potrebbe far pensare a un nome esotico e dunque fa pensare a tutte quelle persone nel Mondo che vivono ancora oggi in territori ostili dove per sopravvivere e sfamare la famiglia bisogna zappare! Emerge dalle parole di questo autore, scelto per voi per la bellezza della descrizione, l’intera vita di persone che hanno vissuto del duro e sfiancante lavoro dello zappatore. E’ un brano molto bello, vivido, intenso e reale nella sua drammaticità, mi è sembrato di essere lì ad osservare la scena descritta. Vi consiglio di leggerlo!


Macerie


Il primo colpo di zappa spaccò la terra in due, il secondo la ribaltò, il terzo portò alla disperazione i vermi che l’abitavano, il quarto si diresse un po’ più in là, verso altra terra.
Una vita scandita da colpi di zappa. Da bambino quell’attrezzo era più grande di lui, difficile da sollevare e quando veniva giù lo trascinava col suo peso. Dabbasso venivano le sue fini braccia, si piegava la schiena e il contraccolpo del terreno era una frustata per entrambi.
Avanzare di giorni, accompagnati da quella musica, di ferro contro pietra e terra, di pelle che scorre leggera sul legno e si apre in vesciche sopra calli ancora giovani. Canto di sospiri affannosi, ansimi improvvisi e gocce di sudore che colano sulla polvere: rumore ovattato, avvertibile solo da udito non umano, lo stesso in grado di sentire le urla di insetti e vermi.
Giorni caldi che passano uno uguale all’altro e lo ritrovano intento sempre nello stesso identico movimento, ma in un punto diverso. Succedersi di campi e coltivazioni, movimenti sempre uguali. Ma come gli dice il padre: «C’è tanta terra da zappare, quindi cerca di fare veloce».
E Bainzu ci prova, vuole fare bella figura. Ad Antro vuole diventare lui il più svelto. La guerra è appena finita, gli uomini sono pochi, e ha ragione suo padre: c’è tanta terra da zappare.
A volte Bainzu fa un sogno in cui lui ha zappato tutta la Terra e non vi è rimasto un solo filo d’erba, si sente il suolo respirare, finalmente libero. Il bambino è contento e tutti nel paese si complimentano con lui. Ora può andare a scuola, non deve più lavorare. Ma poi si sveglia e guardando dalla finestra vede una distesa verde.
Passano gli anni e lui non è un bambino come gli altri: non studia, lavora; non scrive su bianchi quaderni a righe, semmai riga la terra scura e la frantuma; non legge grandi libri pieni di disegni variopinti e scarabocchi neri, semina chicchi che diventano piante colorate e che presto iniziano a dare frutti.
Bainzu legge e scrive sui campi, su righe che si impegna lui stesso di tracciare e poi riempire con pianticelle o semini. Chiunque può leggere i suoi quaderni, ma solo lui può scriverli.
Passano gli anni e Bainzu si accorge che non è tanto facile eliminare tutta l’erba del mondo, perché questa, se non si fa in fretta, ricresce dall’altra parte; qui si finisce, lì si deve ricominciare. Ma lui diventa ogni giorno più veloce e forte, ora le sue braccia sollevano la zappa con impeto e la scaraventano al suolo con rabbia, la terra esplode sotto quei colpi e quando il ferro incontra la pietra partono scintille verso l’aria.
La prima volta che Bainzu vide una scintilla si sorprese, l’emozione gli fece battere forte il cuore. Nell’aria sentì un odore pazzesco, una fragranza bella e misteriosa: se fosse andato a scuola avrebbe saputo che era odore di zolfo. Ci mise un po’ a capire che scintille e fumo si producevano nel colpire alcune pietre in particolare. Quando incontrava terreni che ne erano pieni Bainzu rideva, si divertiva da matti, faceva esplodere la terra intorno a sé e osservava le scintille alzarsi al cielo, riempiendosi le narici di quell’odore magnifico. Fin quando un giorno il padre non lo vide giocare in quel modo e lo schiaffeggiò. «Non si gioca con la terra! La terra è una cosa seria e bisogna rispettarla!» Bainzu non giocò più a sollevare zampilli di fuoco, ma quando delle volte qualcuno si sollevava, egli sorrideva. Quella fu l’ultima volta che il padre dovette batterlo, poiché da allora in avanti non ce ne fu più bisogno, Bainzu non giocò mai più.
Bainzu cresce e le sue giornate si riempiono di un continuo lavorare. Ora lo fa con una certa ansia, dietro di sé vede l’erba infida che, se dimenticata, gira le radici verso il basso, riprendendo a nutrirsi e a crescere, perciò lui deve stare attento. Soprattutto con la gramigna, la più odiata: basta dimenticarsene un pezzetto per terra e questa ricresce meglio di prima.
Con il passare del tempo Bainzu si anima di frenesia nel suo zappare. Il troppo lavoro l’ha mantenuto rachitico, schiacciato al suolo. Ormai maggiorenne, è più basso dei suoi coetanei, però a zappare nessuno gli tiene testa. La foga che lo domina gli fa battere forte il cuore, lo fa ansimare, e quanto più respiro e battito aumentano, tanta più foga lui ci mette. È una furia Bainzu.
Passano gli anni e le zappe si consumano, a volte i manici si rompono e Bainzu è costretto a cambiarli. Un manico nuovo è peggio di una lama nuova, perché il legno fresco si scheggia nelle mani e gli apre vecchi calli, rendendogli doloroso il lavoro. Ma le sue braccia ormai si alzano con vigore nell’aria, e poi calano con una velocità e precisione tali che la terra pare aprirsi molto prima di essere raggiunta; ormai in un colpo la spacca, la voltola e porta alla disperazione i suoi abitatori, frantumandola. È una gioia vederlo zappare. E fu nell’estasi generata da tale gioiosa vista che il padre un giorno, morì.
Ancora anni, e stagioni, e freddo, sole, pioggia, caldo afoso, e le mille vicissitudini che la natura all’uomo impone, ma Bainzu non si lamenta: zappa e zappa, con il cuore che batte forte e lui che zappa sempre più veloce, sempre con quella furia, un’ansia che lo fa star bene e che lo rende felice. Ormai dorme con la zappa di là del letto, si alza prendendola in mano e si corica riponendola nello stesso posto. E persino nei sogni continua a zappare. Poi un giorno sopraggiunge la vecchiaia, lo fa all’improvviso. Ora quell’attrezzo gli fa anche da bastone. Ma quando Bainzu lavora le sue braccia riprendono forza, non è diminuita la velocità, è solo aumentata la precisione e ogni suo colpo di zappa è arte riversata nella terra.
Fino a che un giorno, mentre zappa un campo di patate, accozzando il terreno, si accorge che il cuore gli batte forte. Allora aumenta il ritmo, e il cuore fa altrettanto. Prova a metterci più foga, ma il battito accelera ancora: stavolta vuole averla vinta lui! Ma Bainzu non vuole cedere e prende a lavorare a un ritmo tale che è impossibile stargli dietro.
Non riesce più a controllarsi e inizia a colpire qualche pianta che cade nella terra smossa come un albero abbattuto, ma senza far rumore. Per un attimo a Bainzu gli sembra persino di sentire la voce di suo padre che gli grida: «Con la terra non si gioca!», e gli molla un ceffone. Poi sente un dolore forte al petto e invece di fermarsi intensifica gli sforzi: ormai la zappa vortica impazzita, la terra schizza dappertutto e gli cade sulle spalle, sulla schiena, sulla testa, ma lui sempre più rapido e il cuore a fargli sempre più male… Infine le gambe cedono, il braccio si ripiega all’indietro e il vecchio cade: la faccia nella terra, la zappa di fianco.
Fa ancora un ultimo tentativo per risollevarla, poi con un occhio sbarrato verso il campo, Bainzu muore. Il cuore gli si è aperto in due, si è ribaltato e l’anima, disperata, è fuggita via.


Claudio Piras Moreno (Sardegna)


Se volete leggerlo tutto:
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